Ho sempre pensato che a scuola dovrebbe essere obbligatorio lo studio di tre lingue: l’italiano, l’inglese ed il dialetto della propria zona di origine, importante per non farci dimenticare le nostre radici; anche i dialetti hanno diritto alla loro dignità costituendone patrimonio culturale legato alla storia.
Inizio pertanto, questa serie di … non so come chiamarle: amenità? facezie? discussioni? Chiamatele come vi pare, io parto dal dialetto marchigiano sia per un gesto di affetto verso mia nipote Mary, grande fan di questo blog, sia in omaggio all’amico Dante Ferretti, scenografo di grande fama internazionale.
Per capirne il dialetto si deve risalire al nome della regione, la zona marcava i confini dell’impero, da qui il nome di Marche ed inizialmente aveva una bipartizione: i celti al nord del fiume Esino ed i piceni al sud. Questo vuol dire che attraverso il suo territorio sono passate etnie di tutti i tipi lasciando ognuna l’influenza dialettale della propria lingua, per questo motivo nel vocabolario marchigiano (ma gli studiosi che spaccano il capello dicono che esiste più di un dialetto nelle Marche) vi sono termini in osco, etrusco, ellenico, latino e financo arabo e giapponese che per uniformarli si dovette ricorrere alla metafonesi. Secondo la principale corrente di pensiero, le Marche si possono dividere in quattro aree linguistiche:
– la provincia di Pesaro, il nord e la parte costiera di Ancona, appartenenti al ceppo gallo-italico, con una lingua derivante dal romagnolo.
– Il resto della provincia di Ancona e Macerata, influenzata dai dialetti umbri. In questo tipo di dialetto, data la sua ristrettezza, è difficile stabilire delle regole precise, ma abbiamo alcuni caratteri specifici, come il cambio di “i” in “e” e viceversa, come in “pelo” al plurale “pijie”, “pegno” al pl. “pigne”; “vetro” al pl. “vitre”; nei verbi, come in “meto” (mietere), che in seconda persona diviene “tu miete”; il cambio “uo” in “o”, così “buono” e “bona”, “posso” e “puoe”. Un’altra particolarità è l’assorbimento delle lettere, così caldo diviene “callo”, grande “granne”, quando “quanno”, etc.
– La zona circostante Camerino, dove si parla il dialetto più ortodosso in cui si mantiene la “-u” finale, senza confondersi con la “-o”, come in “lu monnu”, il mondo. Si ha inoltre un passaggio della “e” chiusa in “a”, come in “male” per “mela”, e della “o” in “e”, come in “fiere” per “fiore”.
– La provincia di Ascoli Piceno, in cui l’umbro è stato influenzato dall’abruzzese. anche il veneto è presente nella zona costiera I termini gallo-italici si riconoscono per la presenza dei suoni “ü” e “ö”; dalla caduta di alcune vocali, come in “stimana” per settimana; per le metatesi della consonante tonica, come in “arpià” per “ripigliare”, “arcudà” per “ricordare”; per la caduta di alcune vocali, come in “pover” per “povero”, “pranz” per “pranzo”; per il cambiamento della vocale sorda, come in “segondu” per “secondo”, “diga” per “dica”, “figu” per “fico”; la sofisticazione di tutte le vocali doppie.
Mi sembra doveroso in questo contesto ricordare i personaggi celebri a cui questa terra ha dato i natali, oltre al citato Dante Ferretti vincitore di tre premi oscar per la scenografia: da Leopardi il poeta a Rossini l’aperitivo ah no, scusate, il musicista, da Beniamino Gigli il cantante lirico di cui posso vantare una (lontanissima) affinità essendo mia madre cugina della cognata che mi sembra si chiamasse Adriana, a Giovanni Allevi, sempre per rimanere tra i musicisti; dal Bramante a Raffaello Sanzio tra i pittori.
Concludo con una frase in dialetto “oh và vo vé lo vì” che in italiano sarebbe “oh papà vuoi bere il vino” ; chiedo a Ferretti se si dice accuscì e se non mi rispondi “Pozza vinitte na sciorda a fischiu!”
Commento di Middie
La Marchicianidà è na ficata: nda na mezz ora può ij da lu mare a la mondagna, da li shpiagge a li pishte da sci. Arushta furia!